L'Evoluzione dell'Arte
A cura di Annarita Cardaropoli

Si chiama Alternative Content la nuova formula di spettacolo che il 2003 ha consacrato come speranza per il decollo del cinema digitale e che rappresenta un punto di svolta non solo per gli esercenti ma anche per il pubblico. Negli ultimi tempi infatti è stata realizzata una serie di eventi che hanno avuto come location proprio la sala cinematografica. L’ultimo esempio spettacolare è stato quello di David Bowie che, lo scorso settembre, è comparso sul grande schermo del cinema Arcadia di Melzo in collegamento satellitare da Londra con altre 68 sale in 22 Paesi.

L’evento da concerto si è così trasformato in spettacolo telematico introducendo una strana metamorfosi delle sale cinematografiche. L’Arcadia, dopo l’esperienza dell’inedito “2001 Odissea nello spazio” al dietro le quinte di “Star Wars”, ha proiettato contenuti in digitale accostandosi alle nuove tendenze ed allontanandosi dalla pellicola. L’evento musicale nelle sale, fino ad ora adibite ad altro, è stata una new entry che ha trascinato un vasto pubblico di fan e curiosi.

A Londra la Quantim Digital, non nuova in questo genere d’intrattenimenti, aveva già prodotto con successo un altro live e musical sotto il titolo di “Oden Digital Cinema”. In Svezia il via è stato dato in concomitanza all’apertura dei mondiali di calcio.

Questo progetto però non deve confondersi con la Screen Digest, cioè quanto il pubblico da anni sta sperimentando con i cosiddetti usi alternativi delle sale cinematografiche (o Alternative Use), e caratterizzato dal passaggio, in orari secondari, di eventi aziendali o incontri educativi.

I contenuti dell’Alternative Content sono infatti produzioni originali, possono sostituire i lungometraggi tradizionali ed essere programmati nelle ore di punta, sono live e variano in programmazione: dagli incontri sportivi, ai concerti, ai balletti, ad altre forme d’ intrattenimento indirizzate al consumo di massa. Le possibilità di riuscita di uno spettacolo digitale al cinema resta lo sfruttamento delle prerogative giuste che lo contraddistinguono: grande schermo, impianto acustico sofisticato, possibilità di partecipazione ad eventi rari o lontani, evitando a priori la snaturazione di un prodotto che faccia da copia ad altri modelli di spettacoli.

La prima performance telematica in diretta e per via satellitare con artisti del calibro di Laurie Anderson e Peter Gabriel, si ebbe nel 1984: in quell’occasione il concerto fu inserito in una scenografia elettronica elaborata in tempo reale.Altri cambiamenti in atto, dopo il sonoro digital del ’92 si stanno realizzando, anche se non tutti fruttuosi, visto il fiasco totale delle sale interattive che, in America come in Italia, hanno chiuso i battenti relegando l’interattività degli spettatori, tridimensionalità e lo sfruttamento delle cosiddette quattro dimensioni, ad i parchi giochi a tema. L’avvio verso novità di successo non resta facile da realizzare ma possibile se connaturato all’idea di consumo collettivo ed immediato di idee e progetti al di fuori di ogni limite spazio-temporale.

Cambiamenti profondi sono tutt’ora in atto non solo nelle sale cinematografiche, nei concerti live e nei video musicali che accompagnano l’uscita di nuovi bravi o remake di testi famosi nuovamente interpretati, non si sommano solo nei disegni computerizzati, nell’era della foto digitale con i suoi molteplici trattamenti, ma anche nella continua crescita dei sequel cinematografici a puntate da “Matrix” al “Signore degli Anelli” passando per “Kill Bill” di Quentin Tarantino.

Cambiano i gusti dell’intrattenimento ma cambia soprattutto la concezione degli spazi artistici che vengono così sezionati, manipolati, ricostruiti secondo una sfrenata fantasia ed il gusto per la maestosità e le smisuratezze che contraddistinguono sempre più la nostra società ed i suoi fruitori. I fratelli Andy e Larry Wachowski, per fare un esempio, hanno girato gli ultimi due film della triade di “Matrix” simultaneamente, facendoli poi uscire a distanza di 6 mesi, risparmiando parecchio oltre che aggiudicandosi un incasso doppio di quello che potenzialmente si sarebbe potuto avere. Stesso discorso per il neozelandese Peter Jackson con la sua epica trilogia filmata tutta d’un fiato e distribuita sapientemente in tre episodi scaglionati ogni Natale per tre anni di fila. Un po’ diverso il caso di Tarantino e del suo ultimo capolavoro, anche se l’idea della suspance a tutti i costi è in ogni caso soddisfatta a pieno. Più di tre ore di film, e di arti marziali soprattutto, sono sembrate un po’ pesanti alla casa di distribuzione Miramax che ha chiesto al regista di spezzarlo in due tronconi, permettendo di poter vedere realizzata la vendetta di Uma Turman solo nel secondo episodio. Certo filmare due o tre franchises contemporaneamente può comportare qualche rischio: se il primo è un flop ci sono poche speranze che i sequel, oramai già belli e pronti, siano un successone. E’ però vero anche il contrario visto che se “Kill Bill 2” dovesse incassare quanto il primo episodio, la Miramax dovrebbe guadagnarci in ogni caso circa 150 milioni di dollari, solo in America, rispetto ai 65 milioni spesi per realizzarlo.

Dai film epocali o dalla durata di più di tre ore, in un crescendo continuo del tempo della visione che necessita di modificare tutta la programmazione dei film nelle sale anticipando o posticipando gli stessi orari e modificando, inevitabilmente, l’abitudine e le modalità di andare al cinema, fino dunque alle ultime novità a puntate, tra l’altro già sviluppate in precedenza fuori dai confini americani. Mancando degli effetti speciali attuali e delle molteplici potenzialità dei programmi computerizzati, già negli anni ’20 il genio di Fritz Lang gli permise di girare contemporaneamente “Dr. Mabuse” e “Die Nibelunges”. Stesso discorso per le saghe d’azione asiatiche girate a pochi mesi di distanza e proiettate a puntate, come il caos della trilogia di Toshiro Mifune “Samurai” degli anni ’50.

In un’epoca in continua evoluzione, dove risulta sempre più labile il confine tra le sue molteplici espressioni figurative ed artistiche, dove il museo stesso diventa manifestazione eccelsa d’arte pura, esso stesso manifestazione artistica ai massimi livelli, dove le mostre di qualità si popolano di interazioni poliedriche tra il passato ed il futuro, ricche di spunti personali attivando l’individualità presente e collettiva partecipante, dove l’arte stessa va incontro al pubblico vagante presentandosi sotto molti aspetti nei monitor di casa, allegata ad i quotidiani più diffusi, presente nei luoghi d’affluenza e di vita sociale in città multietniche e polifunzionali come per le stazioni della metropolitana, e ferroviarie, allo stesso modo è tutt’ora possibile assistere ad aste on line comprando opere d’arte e rivendendole se cresce la loro quotazione. Impara l’arte e mettila da parte in attesa che l’investimento aumenti di valore, altrimenti soddisfatti o rimborsati. Sembra impossibile? Non più. In una realtà dove tutto fa notizia e niente sorprende più è ora possibile commercializzare a tutti gli effetti ogni espressione artistica raggiungendo obbiettivi noti da tempo, si pensi alle intuizioni avanguardistiche del novecento. WWW.arteinvest.it è al momento il primo sito che per promuovere l’arte contemporanea ed i giovani artisti emergenti, li quota mettendoli in vendita on line. Una volta acquistati, se in 18 mesi non cresce il loro lavoro nelle quotazioni, consente di restituirli e di recuperare interamente la cifra sborsata. Chi compra dunque riceve una fideiussione pari al costo dell’opera che potrà far valere qualora l’investimento non abbia prodotto guadagno. E non finisce qui. Ogni opera può essere inoltre acquistata ratealmente ed il prezzo è comprensivo di un’assicurazione contro l’incendio.

L’idea, manco a dirlo, porta la firma di un napoletano, Paolo Viscione, avvocato di professione, gallerista virtuale per passione. Un critico d’arte, Franco Poli, perché la cosa è stata pensata con cura, guida nella scelta dei nomi e delle opere da mettere sul sito, il professore Sergio Basile dell’Università La Sapienza di Roma, cura la gestione economica dell’iniziativa. In meno di due anni d’attività l’Arteinvest è diventata così una società per azioni con un capitale versato di due milioni e mezzo di euro, tre sedi tra Napoli, Avellino e Roma, una cinquantina di opere vendute e con la soddisfazione di avere già nel parco artisti un nome che ha raddoppiato le quotazioni. Si tratta di Alfred Mirashi, in arte Milot, che è stato in mostra questo settembre al Maschio Angioino con le sue Veneri. Non trattandosi di serigrafie ma di opere originali e pezzi unici, la società cerca di distinguersi dalle nascenti concorrenti, dando inoltre la possibilità di seguire on line in tempo reale l’andamento del mercato per ciascun autore proposto grazie ad un mini-borsino dell’arte per accedere al quale è necessario essere registrati al sito.

E’ questa dunque la strada giusta intrapresa dall’arte o ne è solo un’espressione innovativa ma pronta a scomparire presto? Considerando il contributo di critici del calibro di Flaminio Guardoni, Massimo Guastella, Paolo Thea, Achille Bonito Oliva a questa iniziativa sembra proprio di si.

Quante sorprese ancora è pronto a riserbarci il nostro secolo? Le espressioni artistiche continueranno a condensarsi, unificandosi e deformandosi a vicenda in un’osmosi ininterrotta e senza fine? Continueranno a piegarsi alle esigenze in continua evoluzione della società o si manterranno al di fuori in uno spazio assoluto e senza tempo?

 

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