4 Artisti dell'Esodo del Paese delle Aquile

Lecce - Torino 2010

Massimo Guastella

Alfred “Milot”Mirashi, Adrian Paci, Parlind Prelashi, Artan Shabani. Alfred, diciannovenne proviene da Milot, nome della terra nativa che ancor oggi si porta appresso nella carriera come gli antichi artisti identificati con il luogo d’origine. Frequenta l’ultimo anno del liceo artistico di Durazzo quando ai primi di marzo del ’91 s’imbarca fuggiasco su una delle carrette del mare. Approda nel porto di Brindisi. Viene ospitato in una scuola elementare a cui un giorno, riconoscente vorrà donare una sua opera. Poi girovagherà per l’Italia.

Artan è un militare ventunenne di Valona, dove ha studiato alla scuola d’arte. Lui, invero, giunge in Italia con un regolare visto. Sbarca a Otranto nel novembre 1991. Lo accoglie la famiglia Bucci, a Corigliano d’Otranto. Per un anno e mezzo risiede nel Salento per poi migrare nel Nord d’Italia. Il percorso di Adrian è, in principio, ordinario: nasce a Shkoder, disegna e dipinge sin da piccolo; frequenta il liceo artistico e l'accademia in Albania. Giunge in Italia una prima volta nel 1992, a ventitre anni, grazie a una borsa di studio. Vi resta tre anni e poi torna in patria. Ritorna a Milano definitivamente, nel 1997, dopo la crisi delle "piramidi finanziarie", che vede la giovane democrazia albanese sconvolta dai disordini accaduti tra il marzo e l'agosto.

Parlind, originario di Lezhe, termina gli studi al liceo artistico di Scutari nel 1990, ai primi sussulti antiregime comunista. La fuga verso occidente subentra al suo iniziale progetto di iscriversi in accademia delle belle arti. L’espatrio gli è impossibile nel grande esodo del marzo ’91; ma due mesi più tardi, come alternativa, ripiega verso Atene. Solo nel giugno del 1994, ventiduenne realizza il sogno di raggiungere l’Italia. Dopo un viaggio su un gommone a motore sbarca clandestinamente a Brindisi. Il giorno dopo va a Firenze dove vive da irregolare per due anni e mezzo fino alla prima sanatoria.

L’itinerario umano e artistico di ognuno di loro potremmo considerarlo al pari di favole di fine e inizio millennio, anche dai tratti moraleggianti, perché no? con qualche venatura sentimentale per quel che mi lega da anni ad Alfred e Parlind, innanzitutto due miei cari amici. Ma a prescindere dall’affetto personale si tratta di quattro uomini che portano, ciascuno individualmente, retaggi culturali e valori della tradizione delle terre albanesi, dove sono nati, del milieu educativo e formativo giovanile. Il bagaglio della loro esperienza personale e della vicenda esistenziale di migranti condiziona la verve creativa. Palesano orgogliosamente i legami con le radici balcaniche e mediterranee dopo aver legittimante colmato, nell’integrazione alla cultura europea, il gap del loro fare artistico di partenza: un confronto aperto, libero e diretto, con le dinamiche culturali contemporanee. Nelle produzioni di ognuno si rintracciano lo sradicamento dalle terre natie, certo nomadismo culturale non privo di suggestioni autoctone, l'emigrazione quale condicio sine qua non affinché si realizzasse l’aspirazione all’arte. Quattro artisti che, nella ricerca estetica si impegnano a munire di autenticità i valori addensati nelle poetiche delle opere, espresse disinvoltamente con medium diversi, degli statuti propri e della tecnologia; da quello pittorico al fotografico, dal video all’installativo.

Alfred “Milot” Mirashi (1969) compone un puzzle che si articola in fotografie, di varie dimensioni, manualmente ritoccate. Cittadini del mondo (2010) è un racconto con un suo incipit: tra i personaggi aggregati l’omaggio alla comunità di Brindisi e salentina, rappresentata dall’immagine di Pino Marchionna il sindaco che, con l’intera città protagonista, nel fine febbraio primi di marzo del 1991, accolse un esodo epocale, sancito da una oramai storica “Cartolina di Andrea Barbato”. È da questa prima chiave di lettura, cifra stilistica e simbolica tratteggiata a china dall’artista, si snoda il flusso multietnico degli individui/chiave; icone “mosse” che sottolineano l’identità sfuggente. È una denuncia alla non accettata diversità. Gli immigrati talvolta sono scansati, non riconosciuti nostri concittadini. È inconcepibile che i loro figli saranno i cittadini italiani ed europei del futuro.

Adrian Paci (1969) presenta due opere elaborate in video. Sul monitor scorrono le immagini di A real game (1999) dove privilegia la comunicazione che da ludica si fa pedagogica; costruisce una sorta gioco-intervista, realizzato nel 1999, dove l’autore fingendosi maestro rivolge alcune domande a sua figlia Jolanda di 5 anni (già protagonista nel video Albanian Stories, 1997). La bambina risponde giocando ma anche riferendo delle verità su una condizione difficile che talora assume sapore drammatico. In una videoinstallazione in 16/9 sono proiettate le immagini, girate in un aeroporto della California, del Centro di permanenza temporanea (2007). Una sequela di uomini e donne, neri e ispanici messicani, risale la scaletta di un aeroplano, che non giungerà! né mai li condurrà verso altra meta!. Un’inutile attesa, rassegnata, passiva sebbene umanamente lirica . Artan Shabani (1969) espone due immagini, una sorta di dittico pittorico e fotografico. Il volto del bambino che osserva da dietro i vetri e la nave, analoga a quella proposta per l’immaginodromo a Forte Marghera in occasione della Biennale di Venezia 2009. Vi si coglie un subordinato senso psichico, che relaziona il bambino alla nave condensando note biografiche e storiche. Palese l’allusione alla migrazione di massa, da una realtà disperata, compiuta da una moltitudine spinta dalla delusione, animata dal miraggio di una vita nuova, modernamente civile. Come è solito l’artista rinvia a quei concetti di identità balcanica, densa di umori tradizionali, sociali, comportamentali proiettati nell’attualità, tra appartenenza e integrazione, non sempre connubio ma contraddizione, fatta di rinuncia ovvero di perdita di piccoli e grandi aspetti della propria soggettività in nome di una conformità globalizzante. Parlind Prelashi (1971) propone un video, che denomina Con Titolo (6) - come tutti i suoi video che ironizzano sulle opere "senza titolo", differenziandoli nella sequenza numerica -. A una cena multiculturale tra amici, albanesi e fiorentini, anche se apparentemente uguali, avvolti nei colori della prima infanzia (celeste e rosa), dosati nelle tonalità di affreschi quattrocenteschi toscani, a poco a poco emergono i luoghi comuni, i cliché e i pregiudizi di ognuno sino a creare disagio nei rapporti reciproci. Una riflessione che invita alla moderazione del proprio ego e delle convenzioni per favorire il dialogo, a riconoscere le difficoltà degli immigrati che si ritrovano in un ambiente differente da quello delle proprie origini, un aspetto che trova il nostro paese inesperto ancorché impreparato nella convivenza multietnica. L’avversione per la diversità, la negazione dell’altro e il pregiudizio nei confronti dell’immigrato costituiscono il fil rouge comune ai quattro artisti di origine albanese, attivi da oltre un decennio in Italia. Nella loro produzione non rinunciano a raccontarsi, attraverso ottiche personali, ricollegandosi, sia pur simbolicamente, alla propria terra, alla sfera affettiva, al proprio vissuto di emigrati. Come uomini e come artisti si dispongono a una non facile integrazione, che via via rileggiamo come Storia, per noi contemporanea, attraverso la multimedialità dell’arte visiva.


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