A cura di Paolo Thea

La prima volta che l’ho visto, Milot aveva un aspetto simile a quello attuale. Pareva di trovarsi di fronte a Skanderbeg, ad un individuo con un’andatura da eroe del Far West ed un aspetto da Gesù Cristo. Immediatamente si capiva che un simile personaggio, per il quale con l’energia e la generosità, “forza e gentilezza” come diceva il futurista Guido Keller, si poteva risolvere ogni problema, non si sarebbe trovato a suo agio in un sistema come quello vigente. Quando parlava del suo lavoro, descriveva en¬tusiasticamente cosa stava facendo, guardando l’interlocutore con occhi spiritati, proprio come fa adesso. Dava l’impressione di uno che maneggiasse il pennello roteandolo come una spada, come il Caravaggio delle opere siciliane. Da una certa data si firma Milot, dal nome del luogo al nord dell’Albania vicino Lezhe dove è nato. A Milot Skanderbeg, il condottiero albanese per antonomasia, ha combattuto e vinto alcune battaglie mentre a Lezhe nel 1468 è morto di febbre. Tutte le opere d’Alfred sono state dipinte dopo l’arrivo in Italia. Il soggiorno nel “bel paese” a partire dal marzo ’91 non è avvenuto grazie ad una borsa di studio finanziata da una fondazione o da qualche ricco mecenate, ma al viaggio di una nave partita da Durazzo ed arrivata a Brindisi stipata di 5000 disperati come lui, che oggi qualcuno definirebbe “clandestini”. Nel suo peregrinare tra città italiane e straniere, il linguaggio ha mantenuto la costante dell’energia e dell’idealità anche se sono cambiati i riferimenti, dal folclore albanese, passando per Caravaggio, l’arte rinascimentale, l’informale europeo ed americano e per approdare all’arte greco-romana. Le tele rivelano tramature da cui emerge un intento costruttivo quasi le applicazioni coloristiche costituissero degli elementi strutturali. Le aree luminose dei suoi quadri, simili a grandi sciabolate di colore acrilico abbinato ai pastelli ad olio, determinano un amalgama sottile ed acceso. Sono effetti che intercalati alla densità materica producono intervalli fluorescenti ed inaspettate trasparenze oltre cui si percepiscono luci, velature e delicatezze proprie di volti, paesaggi, avvenimenti e ricordi d’infanzia. I lavori preparati per questa mostra contengono l’esplicito rimando a frammenti di sculture provenienti dall’Illiria, testimonianza inequivocabile dell’incontro tra una matrice greca ed un’altra asiatica. È come se da quelle sculture si sprigionassero ampie campiture di colore. La parola “Mediterraneo” ricorre in modo ossessivo nei titoli come fosse l’effettivo fulcro attorno a cui tutto ruota. A Napoli il condottiero era già stato dal 1459 al 1461, accorso per aiutare il re Ferdinando I contro le mire degli antichi pa¬droni del reame, gli angioini. Ora è ritornato per portare a termine una nuova missione delicata e rischiosa: dipingere dei quadri.